Ora, mentre sto scrivendo, vivo un momento molto particolare della mia vita. Vivo la Storia, più di ogni altro giorno. Come mai? E’ successo un “evento”. Non gli ho dato un nome, proprio come ne parla il filosofo Ronchi l’ho descritto solo come evento. Parlo di un virus, il COVID19, che in quanto evento provoca trasformazioni.
Trasformazione… Noi la temiamo, la trasformazione. Ormai siamo abituati a poter avere tutto quello che vogliamo con un click, con una ricerca. Possiamo essere chiunque vogliamo, concentrandoci su cose futili come il vestiario o il taglio di capelli. Stiamo bene così, non vogliamo cambiare. Eppure lo abbiamo dovuto fare, un colpo di tosse e una stretta di mano ci hanno costretti a casa, in tutto il mondo. Il Presidente del Consiglio Conte per tranquillizzarci ha parlato in diretta televisiva a tutta la Nazione, affermando che non c’è nulla di cui preoccuparci, perché tutto tornerà come prima. Ma non è così, nulla sarà come prima, è giusto saperlo, e non vale solo per il COVID. Ogni azione è un evento, ogni evento porta una trasformazione. Ad ogni causa corrisponde un effetto, e questo di certo non fa eccezione per un evento così grande come quello di una pandemia. In questo mondo che inizia a ritirarsi, spaventato dal diverso, questo virus ha nuovamente mostrato quanto inutili siano tutti i muri che erigiamo, poiché il virus non ha occhi, è come cieco: non conosce confini, non fa distinzione di classe, non distingue il colore della pelle, e colpisce chiunque, amici, nemici e sconosciuti. Così facendo abbatte i muri. “Si dirà che la pandemia genera zone rosse, clausure domestiche, militarizzazioni del territorio. E questo è indubbio. Ma qui il muro assume un senso completamento diverso dal muro che il ricco costruisce per tenere lontano il povero”, dice Ronchi. In un momento di crisi in cui uscire diventa un pericolo, riscopriamo di dover rivalutare le nostre priorità; tutti i negozi hanno chiuso, fatta eccezione per quelli che devono garantire i beni di prima necessità: alimenti e farmaci. Il virus ci costringe quindi alla rinuncia della cosiddetta libertà, che consisterebbe nel poter uscire ogni qualvolta vogliamo per risolvere i nostri problemi, che evidentemente, se non sono quelli stessi da dover risolvere anche -e soprattutto!- durante la crisi, non sono veri problemi. Abituati ad un mondo dove l’apparenza è tutto e dove l’obiettivo ultimo è essere pressoché “perfetti”, secondo il gusto comune, ci è difficile restare a casa a dover convivere con una vita priva di appuntamenti e meeting, priva di qualsiasi altra cosa che non sia se stessi. E non capisco come mai, ma ormai “se stessi” non va più bene. Stavo pensando che ci stanchiamo di camminare, ma ci stanchiamo anche di stare in casa a non fare nulla. Ci stanchiamo delle abitudini, ci stanchiamo anche di noi stessi. Uscendo non si respira un’aria comune: sembra di entrare in un film, o in un videogioco in prima persona, di zombie. Sembra di vivere in una città fantasma, viva di ricordi ma silenziosa, senza traffico e senza persone. Sembra che gli animali ne abbiano preso il possesso, unici esseri che camminano e volano senza preoccupazioni. Gli uomini neanche si scambiano gli sguardi, escono di fretta, coperti fino al collo, anzi fino alla bocca e al naso, desiderosi solo di tornare a casa il prima possibile, evitando qualunque contatto. Al tempo del virus il politico torna ad essere la guida del popolo, adempie al suo dovere con fermezza e non è più l’assetato ricercatore di consensi e potere. Nessun battibecco politico, nessuna citofonata invadente, nessuna ricerca di attenzioni: l’attenzione è rivolta unicamente all’evento. Il virus dispone alla meditazione, non nel senso che ci fa pensare alla nostra fragilità ma che ci fa capire che essere liberi non significa poter uscire quando vogliamo ma poter fare ciò che si deve fare. |